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Disgusto e animalità. Brevi note sulla zooerastia

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apparso su Asinus Novus

I rapporti sessuali con gli animali sono proibiti, il macello degli animali è permesso. Ma nessuno ha ancora riflettuto sul fatto che potrebbe trattarsi di un delitto sessuale?
(Karl Kraus)


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Forbicine (forfecchie) che si intrufolano nelle orecchie, topi che amano i buchi e si incuneano negli intestini o su per i genitali femminili, pipistrelli che si avventano nei capelli con unghie uncinate, senza più lasciarli andare: notoriamente la mitologia popolare pullula di bestie intenzionate a invaderci. Che non un solo episodio di questo genere si sia verificato nella vita nostra o in quella delle generazioni che ci hanno preceduto non basta evidentemente a interrompere il flusso di questi racconti, né il brivido che essi suscitano in ogni bambino.
La psicanalista Melanie Klein, lavorando sulla nozione di proiezione già affrontata da Freud per la patologia della paranoia, definì per prima l’identificazione proiettiva come il processo in virtù del quale parti scisse e angoscianti del Sé vengono negate con tale accanimento che il soggetto non le riconosce più come proprie, e per questo tornano a lui dall’esterno, sotto forma di oggetti minacciosi e persecutori. Spesso a questa sensazione di pericolo incombente è associata l’emozione sfaccettata e densa del disgusto, una dilazione della paura che ha a che fare col senso dell’integrità del corpo e con ciò che è considerato causa di contaminazione. Come osserva Filippo Trasatti, «questi limiti corporei diventano poi per proiezione dei limiti simbolici che vanno a costruire la sfera dell’identità, personale e collettiva. Come l’odio, anche il disgusto per le stesse cose tiene insieme un gruppo» [1].
Giocando un po’ con la psicanalisi, si potrebbe quasi vedere all’opera, in queste curiose stratificazioni della memoria collettiva, l’ennesimo tentativo di preservazione della purezza dell’identità umana, che agisce sul Sé individuale e collettivo rimuovendo il ricordo-trauma dell’animale (del nostro essere animali e della nostra violenta scorporazione dal resto del regno animale), e quindi producendo l’animalità come insidia. In altre parole, le leggende popolari che hanno angustiato ogni infanzia presenterebbero i tratti della produzione paranoide.

Se il termine non piace, si può anche più semplicemente parlare di immunizzazione, ovvero della «risposta protettiva nei confronti di un rischio» [2]. Il rischio è quello che bene inquadra Marco Maurizi nel suo articolo Teriofobia, ossia quello di uno sfaldamento, di una contaminazione, di una spaccatura lungo la barriera che separa proprio ed estraneo, interiore ed esteriore, quel che qui più ci interessa: umano e animale [3]. Per chi abbia mente e pazienza per interrogarli, l’infinita gamma dei tabù e delle fobie umane sembrano testimoniare di questa angoscia fondamentale: essa si annida, nascosta e irriconoscibile, persino nelle espressioni di chi ogni giorno si batte in favore di quell’ideale vago noto come “liberazione animale”.
Si prenda la fotografia di un allattamento interspecifico (donna-vitello, donna-capretto, ecc.), e si osservino le reazioni degli spettatori [4]. Nella maggior parte dei non animalisti essa produce istintivamente un moto di netto rifiuto; a seconda delle diverse sensibilità, si squaderna davanti a noi la variegata fenomenologia del disgusto, che oscilla solitamente tra il nervosismo e lo scandalo. A dimostrazione di quanti e quali siano i differenziali di potere impliciti nella costruzione della categoria dell’“umano”, queste reazioni si fanno marcatamente più intense se la donna che offre il suo seno a un neonato non umano è di pelle bianca e veste all’occidentale: nel web circolano immagini di donne di colore o donne indiane che allattano assieme ai loro figli naturali anche vitelli o altri cuccioli orfani, ma nei confronti di queste la media appare enormemente più tollerante – tolleranza che, chiaramente, non possiede nulla di benigno, ma è indice di una svalorizzazione: questi scatti non destano altrettanto scalpore perché il concetto di “umano”, nella sua articolazione contemporanea, possiede una spiccata valenza razziale e un essere umano di colore non è mai pienamente compreso entro le sue maglie, potendo così permettersi una maggiore “promiscuità” con il vivente non umano.
A differenza dei non animalisti, normalmente gli animalisti accolgono queste immagini con gaudio e commenti di lieta approvazione. Si potrebbe pensare che ciò avvenga perché essi non oppongono un fermo diniego all’idea di essere accomunati agli altri animali. Ciò è vero soltanto in parte. Naturalmente, finché l’animale si presenta loro nelle vesti dell’innocente, dell’inerme, della vittima di violenza cui garantire calore e protezione – ovvero la lente deformante attraverso la quale sono stati abituati a vederlo dalle proprie battaglie quotidiane – essi non temono la sua vicinanza e il suo contatto. Decisamente la musica cambia non appena esso si liberi delle visioni infantilizzanti e stereotipe che lo imbrigliano e reclami per sé una dimensione inattesa, magari quella di una sessualità gioiosa ed esuberante, talmente esuberante da poter travalicare i confini di specie: irrompendo nei nostri.
Non sono molti (eufemismo) gli animalisti disposti a tracciare una differenza che pure a uno sguardo sereno e distaccato dovrebbe risultare ovvia, ovvero quella tra zoosadismo e zoosessualità [5]. Come suggerisce Antonio Volpe, «c’è una differenza non suturabile fra chi stupra un animale (magari in quegli atroci bordelli che sembrano duplicare quelli di bimbi dell’est asiatico) e chi ha con un animale non umano un rapporto sessuale che non implica violenza, ma o piacere sessuale reciproco o comunque qualche forma di scambio affettivo» [6]. Eppure gli episodi di cronaca che riferiscono di scambi sessuali del tutto consenzienti tra umani e non umani innescano, persino negli antispecisti, reazioni identiche, se non più forti, a quelle che la fotografia della poppata interspecifica causava nei non animalisti [7]. Il disgusto assume quelle forme violente che solo un evento altamente repulsivo è in grado di scatenare: sarcasmo triviale e bilioso, inflessibile e inorgoglita resistenza a valutare o cercare di valutare obiettivamente i fatti, condanna iper-moralistica, a tratti isterica, dell’attore umano coinvolto nel rapporto. Effetti che si smorzano soltanto per lasciare spazio a una vittimizzazione totalmente inopportuna dell’animale (beato) e altrettanto incapace di ascoltare ragioni.
Succede anche ai “piani alti” dell’antispecismo. È noto che nel suo breve saggio Heavy Petting Peter Singer abbia argomentato in maniera convincente a sostegno della liceità morale del sesso attraverso la barriera di specie, a patto che l’intenzionalità sia rispettata da ambo i lati [8]. Con insospettabile spregiudicatezza, egli si chiede anche da dove origini la veemenza con cui il tabù del sesso con animali continua ad essere mantenuto, e quindi ne individua la vera ragion d’essere nel «nostro desiderio di differenziarci, eroticamente e in ogni altro modo, dagli animali» [9].
Ammettere il sesso con animali significherebbe sfumare la linea di demarcazione sociale che l’essere umano ha sempre disegnato attorno a se stesso e cassare d’un colpo l’auto-rappresentazione che ne è conseguita: questo è propriamente ciò che dà le vertigini. Anche agli antispecisti… Si pensi al tono ridicolmente apodittico con cui Tom Regan pretende di liquidare in tutta fretta le tesi di Singer – fretta che, tra l’altro, è sintomo del profondo disagio che Regan stesso si rifiuta di affrontare [10]. Alla palmare affermazione singeriana che non sempre il sesso con animali comporta crudeltà, uno stizzitissimo Regan è in grado di ribattere soltanto che un animale, esattamente come un bambino, non sa dire “sì” o “no”, non può dare il suo consenso informato. Che a furia di martellare sui casi marginali Regan si sia dimenticato che un animale non è proprio la stessa cosa di un bambino? E poi, non eravamo noi antispecisti a incaponirci – e giustamente – sul fatto che quello verbale non è l’unico linguaggio possibile, e occorre apprendere forme di comunicazione diverse dalla nostra? Perché un animale che scalcia e recalcitra starebbe senza ombra di dubbio pronuciando il suo “no”, e uno che sfrega e struscia non starebbe esprimendo il suo “sì”? Proprio chi intende lo specismo nei termini di un mero pregiudizio morale dovrebbe ritenere il divieto di contatto sessuale fra umani e non umani altamente pregiudiziale. Come Singer coerentemente fa. E pazienza se ciò solleverà «un’ondata certa di indignazione e ridicolo» («certain avalanche of outrage and ridicule») [11]: non è mai toccata sorte migliore a chi abbia osato infilare le dita nella piaga, per scoprire di che materiale è fatto quel che brucia.


[1] F. Trasatti, Anus mundi. Disgusto e omosessualità, http://www.liberazioni.org/articoli/TrasattiF-04.htm.
[2] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, p. 3.
[3] Queste considerazioni sono interamente debitrici al pensiero di Marco Maurizi, che ha il merito di aver descritto con estrema precisione la genesi e la struttura di questa angoscia atavica. Cfr. M. Maurizi, Teriofobia, http://asinusnovus.wordpress.com/2012/05/02/teriofobia/.
[4] A questo proposito mi permetto di rimandare al mio Teriofobia for dummies, http://asinusnovus.wordpress.com/2012/07/10/teriofobia-for-dummies/.
[5] Ad onor del vero Ciro Triano, criminologo e responsabile dell’Osservatorio Nazionale Zoomafia della LAV, individua oppurtune differenze tra bestialità, zoofilia erotica, zooerastia e zoosadismo, ma immediatamente sentenzia che ogni attività sessuale tra umani e animali costituisce un abuso, e quindi qualifica come “antropocentrico” o “stupido” chiunque s’azzardi a sostenere il contrario: «[...] trovare un motivo razionale per giustificare gli atti sessuali con animali è impossibile, a meno che non si voglia ricorrere con deferenza (e stupidità) alla nostra visione del mondo antropocentrica. Il trionfo dello specismo e dell’antropocentrismo risiede proprio in coloro che dell’animalità umana fanno motivo di giustificazione di condotte che non sono né umane né animali». Cfr. C. Troiano, Bestialità, zoofilia erotica, zooerastia: il vero esame immorale dell’umanità, http://www.lav.it/uploads/93/47111_Commento_zooerastia.pdf.
[6] Antonio Volpe, detto l’oscuro, quando commenta gli scritti altrui con il nome di Derridilgambo è singolarmente chiaro: si vedano i commenti in calce alla traduzione italiana di Heavy Petting di Peter Singer su Asinus Novus, http://asinusnovus.wordpress.com/2012/11/12/heavy-petting/#comments.
[7] Si pensi al caso risalente allo scorso novembre della ventenne statunitense Brittany Angelique Sonnier, accusata e condannata per aver avuto rapporti sessuali orali e vaginali con due dei suoi cani di casa, e alla gogna mediatica della quale è stata fatta oggetto anche e soprattutto ad opera di sedicenti animalisti. Cfr. S. Contardi, Oggetti di pietà, http://asinusnovus.wordpress.com/2012/12/07/oggetti-di-pieta/.
[8] Cfr. P. Singer, Heavy petting, http://www.utilitarian.net/singer/by/2001—-.htm.
[9] Ibidem.
[10] Cfr. T. Regan, Why sex with animals violates their rights, http://www.animalsvoice.com/regan/?p=1096.
[11] Ibidem.



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