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Comunicare

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apparso su Asinus Novus

C’è un capitolo de I sommersi e i salvati di Primo Levi che torno di tanto in tanto a leggere, nonostante lo conosca quasi a memoria, perché mi sembra di trovarvi insegnamenti così belli e vivi che non temo, ripassandolo, il gusto mi si possa guastare: Comunicare. Levi decrive il bisogno intenso, a tratti straziante di comunicare dei deportati, una fame dello spirito non inferiore a quella del corpo; e d’altronde, per imparare sottovoce qualche esigua parola di tedesco, Levi barattò il suo pane con un alsaziano.
L’aver sperimentato sulla propria pelle questa asfissiante deprivazione della parola fa sì che egli, anche diversi anni più tardi, condanni come pretto chiacchiericcio teorie molto in voga sulla cosiddetta incomunicabilità umana e, allo «scrivere oscuro», preferisca energicamente un linguaggio articolato e chiaro, che assurge al compito di vero e proprio «servizio pubblico»:

Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. [...] Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. [1]

«In un codice suo o di pochi»: la sanzione di ogni esoterismo, non solo terminologico, è qui evidente. In effetti Levi confessa di scrivere sempre con la curiosa impressione di avere accanto il suo lettore: ed è veramente commovente la premura con la quale si impegna a indossare costantemente i suoi panni, tutto assorto dall’imperativo di non umiliarlo con una prosa troppo aspra o una troppo ammiccante, testimonianza di una fiducia rimasta intatta nel verbo umano, intatta anche dopo quello che aveva passato.

Ora io credo che della lezione di quest’uomo singolare gli animalisti abbiano appreso ben poco, benché non facciano altro che parlare di olocausto. Se davvero credono di avere una missione, o una mission, che in inglese fa meno oratorio, non possono permettersi di trattare troppo sbrigativamente le modalità con cui trasmettono informazione. Anzitutto molto spesso danno prova di uno scarsissimo rispetto verso se stessi e il proprio interlocutore, ad esempio quando, per pura pigrizia mentale, non controllano la fonte di una citazione che s’apprestano a tramutare in slogan da cartellone (l’aforisma «Auschwitz inizia ogni volta che si guarda a un mattatoio e si pensa: sono soltanto animali», attribuito ad Adorno da Patterson e reso popolare da una campagna della PeTA, è un falso, e siamo anche un po’ stanchi di doverlo ribadire). Ma del resto questo non è un caso isolato, quanto una spia utile a inquadrare un fenomeno più generale: gli animalisti mettono se stessi dalla parte del giusto, e credono che ciò possa bastare. Parlano «il linguaggio del cuore», e l’enormità del dolore animale rende accessorio ogni sforzo di comprensione ulteriore. Lasciando in sospeso per un momento se davvero essi abbiano assolutamente ragione (e io rabbrividisco davanti ad ogni assoluto), questo li rende colpevoli due volte: verso le persone alle quali si rivolgono, cui il linguaggio del (loro) cuore può risultare difficilmente decifrabile; e verso gli animali che hanno la pretesa di rappresentare, i quali si ritrovano in sorte, come se non fossero già abbastanza disgraziati, rappresentanti tutt’altro che validi e ben preparati.
Lo stesso paragone con l’olocausto attesta in realtà della poltroneria tipica di chi s’è già dato ragione dal principio, e a cui non resta altro che cantarsela e suonarsela da solo. Esso è altamente fuorviante dal punto di vista della ricostruzione storica, e terribilmente fallimentare da quello di una comunicazione efficace. Fuorviante dal punto di vista della ricostruzione storica perché, come osserva Susan Witth-Stahl, pur di trovare analogie (meramente esteriori) fra orrori tanto diversi, strappa il genocidio ebraico al suo contesto, lo spoliticizza e finisce per diagnosticarlo come pura miseria etica; fallimentare da quello di una comunicazione efficace perché produce una dissonanza cognitiva tale da scaldare i cuori già roventi degli attivisti, e far scappare tutti gli altri.
Si direbbe che la sua utilità consiste soltanto nel rimpolpare il senso di appartenenza di un gruppo, quello animalista, già sufficientemente gravato da deliri identitari. E, sintomaticamente, non appena si osi contestare l’opportunità di questo paragone molti animalisti rispondono proprio come risponde ogni gruppo identitario quando viene minacciato da critiche fondate che ne mettono in crisi, o anche solo in discussione, l’identità chiusa: con la violenza sottile del ricatto, dell’attacco ad hominem. Rifiutare di accostare la tragedia degli animali alla Shoa significa allora sminuirla, essere “antropocentrici”.
C’è una confusione alla base di quest’accusa che mi sembra strettamente legata all’impostazione rigidamente moralistica da cui l’animalismo non riesce a sganciarsi neanche per un attimo: differenziare è un gesto teorico del tutto necessario che consente di calarsi più a fondo nella realtà data e intuire magari come fare a cambiarla, ma da nessuna parte sta scritto che operare opportune distinzioni sia sinonimo di giustificare. Spinoza diceva che, riguardo alle cose umane, prima di ridere, piangere o indignarsi, bisognerebbe capire. Ecco io temo che chi abbandona completamente la prospettiva umana per guardare soltanto attraverso gli occhi degli animali venga (comprensibilmente) accecato dal dolore, e rinunci a capire. Il fare rabbioso e singhiozzante con cui, al di là di ogni possibile logica, il paragone tra olocausto e questione animale continua ad essere posto non mi sembra diverso da un lamento inarticolato, dal disperato guaito animale. E, come il guaito animale, esso “parla” soltanto a chi gli è già sensibile.
Chi intende realmente fare qualcosa per gli animali non può limitarsi a urlare e piangere con loro, o verrà lasciato solo a gridare nel deserto, e perirà con loro. L’analisi seria e disciplinata del fenomeno sfruttamento animale e la parola argomentata sono preferibili alla provocazione fine a se stessa e al rantolo perché, se «il maiale non fa la rivoluzione» [2], difficile pensare la faremo noi al suo posto, straniandoci completamente dal nostro prossimo umano.


[1] P. Levi, «Dello scrivere oscuro», in L’altrui mestiere, Einaudi, Torino 1998, pp. 53-54.
[2] Chiedo scusa a Leonardo Caffo se continuo a pasticciare con i titoli dei suoi libri, ma mi è proprio impossibile resistere a questa tentazione.



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